CAPITOLO 1
Era lunedì e Jessica, come ogni
giorno, si era recata a lavoro. Lavorava come segretaria presso lo studio di un
avvocato, a Cuneo. Le piaceva. Non era niente di che, è vero, ma, almeno lì, si
sentiva in famiglia.
Già, perché Jessica una famiglia l’aveva,
certo, ma lei non se n’era mai sentita parte, in quanto mai era stata ben
accetta o, per meglio dire, non era proprio stata voluta. Uno sbaglio, insomma…
e se, anche solo per qualche istante, se ne dimenticasse, ci pensava, poi, suo
padre a riportarla con i piedi per terra!
Aveva solo ventitré anni, ma era
molto più matura rispetto alla sua età. Aveva dovuto crescere in fretta e ora
voleva andarsene da casa, cercarsi un appartamento tutto suo, ma ogni volta che
si decideva, succedeva sempre qualcosa che la bloccava.
Da circa un anno, cioè da quando
aveva trovato un lavoro stabile, la sua vita era un tantino migliorata… Quando
era in ufficio, infatti, veniva trattata con il massimo rispetto, il suo lavoro
era molto apprezzato, con i colleghi aveva un bellissimo rapporto, in
particolare con Raffaele, da tutti chiamato Raffa, l’unico che era riuscito a
farsi raccontare un po’ della sua vita, l’unico che capiva al primo sguardo
quando c’era qualcosa che non andava o quando aveva delle preoccupazioni in
testa.
Lei sapeva di piacergli ma, al
momento, non voleva impegnarsi, o almeno questo si ripeteva per giustificarsi.
La verità era, però, un’altra, aveva paura degli uomini, e anche se lui
sicuramente era diverso, Jessica non riusciva a fidarsi… non ancora.
«Ciao cara, pronta per iniziare
una nuova settimana?», le chiese Marco, il capo, appena entrò in ufficio.
«Certo! Pronta!», si limitò a
rispondere lei, prima di raggiungere la sua postazione.
Non era proprio dell’umore
adatto. Quella mattina, infatti, si era svegliata e aveva trovato suo padre che
dormiva, riverso sul pavimento della cucina. Ultimamente questa scena era diventata
un’abitudine. Aveva cercato di svegliarlo. Dopo minuti di spintoni e grida, lui
si era alzato per coricarsi sul divano. Ovviamente non senza prima caricarla di
insulti.
«Hai sentito cosa ti ha detto il
dottore? Devi smetterla di bere!».
Sapeva già che tutti i suoi
sforzi per togliergli quel vizio maledetto, sarebbero stati inutili.
Non se ne sarebbe neppure dovuta preoccupare
ma, in fondo, suo padre era l’unico che le aveva dimostrato, a modo suo, un po’
di affetto, e poi era l’unica persona rimastale al mondo.
Sua madre non sapeva nemmeno che
faccia avesse. Quando aveva appena tre anni, infatti, se ne era andata
lasciandoli soli. I nonni non c’erano più, e altri parenti non ne avevano. Troppo
spesso si sentiva stufa di vivere così.
Ormai erano mesi che il padre non
lasciava passare giorno senza la sbronza quotidiana. E poi, ovviamente, era lei
a pagarne le conseguenze…
Ritornò con la mente al presente
e si concentrò sulla mole di lavoro da sbrigare. Senza che se ne accorgesse
arrivò la mezza.
Tornò a casa per la pausa pranzo.
Abitava a Madonna dell’Olmo, quindi impiegava poco più di cinque minuti.
Di solito nel percorrere quel
breve tragitto impiegava molto più tempo del dovuto. Lo faceva per assaporare
il panorama, ma, soprattutto, per lasciare che la quiete di quel luogo
avvolgesse il suo animo, prima di tornare alla cruda realtà. Quel giorno, però,
aveva una strana agitazione addosso.
Aprì la porta e ciò che vide la
fece rabbrividire. Suo padre era steso a terra, sanguinante, con ancora il
collo della bottiglia di vino tra le mani.
Provò a scuoterlo, invano. Senza
esitare chiamò l’ambulanza.
In pochi minuti arrivò, il medico
e i barellieri lo caricarono sul mezzo e partirono spediti verso l’ospedale.
Jessica dietro in macchina.
Mentre attendeva di sapere
qualcosa dai medici, tremava. Era sola e aveva paura. Quasi come un automa chiamò
Raffa e, con voce rotta dal pianto, gli raccontò l’accaduto. Lui voleva
raggiungerla all’istante, ma lei lo bloccò.
«Ti ringrazio davvero molto, ma
non voglio. Va al lavoro e avverti il titolare. Appena mi dicono qualcosa ti
faccio sapere».
Le sarebbe piaciuto molto,
invece, averlo lì accanto, per rassicurarla, per infonderle un po’ di quel
coraggio che le mancava, ma non voleva essere un peso per lui.
L’attesa fu veramente lunga e
snervante. Dopo un’ora e mezza, finalmente, vide un dottore che veniva verso di
lei. Si alzò.
«Lei è la figlia di Luigi?»,
domandò con tono professionale.
«Sì, sono io», rispose con un
filo di voce appena percettibile.
«Suo padre, al momento, l’ha
scampata bella. Era in coma etilico. Ora è in rianimazione e la prognosi rimarrà
riservata per alcuni giorni. Bisogna vedere se le sue condizioni rimangono
stabili e se si riprende oppure no. Purtroppo non posso darle troppe speranze,
ma tutto è possibile. Se passerà la notte, la ripresa sarà quasi certa».
Jessica ascoltò in silenzio e poi,
con un filo di voce, chiese, «Posso vederlo?».
«Faccia come crede, ma solo per
qualche minuto».
Si avviò verso il reparto di
rianimazione.
Giunta lì un’infermiera molto
gentile le diede il camice e il copricapo sterili da indossare e la fece entrare.
La scena che si trovò di fronte fu straziante. Suo padre aveva il viso
ricoperto di graffi e tagli, provocati dal vetro della bottiglia, era pieno di
tubi e la stanza era invasa dal rumore dei vari macchinari.
Lo osservò per qualche istante e
poi uscì.
Decise di tornare a casa, visto
che non poteva fare altro, ma prima mandò un messaggio a Raffa, spiegandogli
brevemente la situazione e dicendogli anche di non chiamarla.
Non aveva voglia di parlare con
nessuno. Era sola e lo sarebbe sempre stata.
Jessica guidò fin verso casa con
la mente annebbiata.
Abitavano in una piccola villa
con giardino appena periferica dal centro della frazione.
Lasciò la macchina in cortile ed
entrò. Era esausta. Si buttò sul divano e pianse. Le lacrime scendevano copiose
sul suo volto. Erano lacrime di dolore, di sconforto, di solitudine. Spesso le
capitava di chiedersi perché era nata se poi quella era la vita che le
spettava? Sarebbe mai riuscita a sorridere lei?
Si addormentò.
Fu svegliata dal suono insistente
del campanello. Guardò l’ora e vide che erano le 18,30.
Cercò di ricomporsi un minimo e
andò ad aprire. Si trovò di fronte Raffa.
«Sei qui, meno male. Ho provato a
chiamarti, ma non rispondevi, mi sono preoccupato. Come stai?».
«Insomma… Mi sono addormentata…».
Raffa sapeva – lo vedeva dal suo
volto – quanto Jessica fosse sconvolta.
Le faceva pena, ma in senso
buono. Avrebbe, tanto, voluto alleviare, almeno in parte, il dolore che
traspariva dai suoi occhi.
«Ascolta, lo so che probabilmente
preferiresti stare sola, ma lascia almeno che ti dia una mano a sistemare qui»
disse, quasi in tono supplichevole.
In effetti, la cucina era un
disastro. Non aveva ancora pulito nulla e il pavimento era ricoperto di vino,
sangue e vetri rotti.
«Ok… Grazie!».
Non riuscì a dirgli di no e poi,
in effetti, aveva bisogno della presenza di qualcuno.
In poco più di mezz’ora,
riuscirono a dare alla cucina un aspetto presentabile.
Raffa la aiutò anche a preparare
la valigia con qualche ricambio per il padre. Non sapeva se servisse qualcosa o
meno, ma decise che era meglio avere qualcosa dietro. Poi, insieme, si recarono
in ospedale.
La situazione non era cambiata.
Lo osservarono da dietro il vetro. Il medico le disse che, al momento, era
stabile, le consigliò di andare a casa e di tenere il telefono a portata di
mano. In caso di novità l’avrebbero avvertita.
Elvira tonelli
NEI PROSSIMI GIORNI IL SEGUITO....
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